E’ una di quelle questioni che nessuno vuole affrontare, un argomento scomodo per chiunque, perché è estremamente facile girarsi dall’altra parte e far finta di non vedere, piuttosto che affrontare la spinosa realtà. Centinaia di migliaia di persone ogni anno sono costrette, in questo caso soprattutto per motivi economici, ad abbandonare la propria casa e fuggire cercando rifugio altrove, puntando all’Europa, un luogo ameno agli occhi di molti, che non li accetta, non come dovrebbe almeno. Esseri umani rifiutati da tutti, nei pensieri di pochi: dei fantasmi considerati un peso, che nessuno ha il coraggio di aiutare. Dico questo perché i migranti, provenienti soprattutto dall’oriente, sono ormai quasi impossibilitati a raggiungere l’Europa legalmente, ma persone come loro, che non hanno nulla, pur di salvarsi hanno trovato altre strade: le rotte, percorsi impervi, da cui non si ha alcuna garanzia di tornare, ancora minore è la probabilità di giungere a destinazione.Negli ultimi tempi si è sentito parlare di una via in particolare però, la rotta Balcanica,
esistente già da parecchio, che col passare degli anni ha iniziato ad assumere sempre più importanza, fino a superare la sempre più pericolosa rotta del Mediterraneo centrale, che collega l’Africa con l’Italia. Ora però, non passi il messaggio che la rotta Balcanica sia una passeggiata: la maggior parte dei migranti che la affrontano vengono da Siria, Iraq, Afghanistan e Turchia, e intraprendono un viaggio straziante che li porta dapprima in Grecia, per poi superare il confine con la Macedonia e da qui giungere in Serbia, Ungheria, Bosnia-Erzegovina e, come obiettivo privilegiato, in Croazia, porta per l’occidente, che tuttavia appare quasi irraggiungibile.La rotta ha iniziato ad assumere un certo peso a partire dal 2015, quando, con l’aumentare dell’affluenza migratoria in questa zona, i rappresentanti di Unhcr (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) e Frontex (Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera) si sono riuniti a Bruxelles con i capi di stato dei Paesi interessati, creando un sistema di collaborazione tra i vari Stati, che permettesse di aumentare i controlli alle frontiere e monitorare militarmente il percorso. In questo modo si costituiva una sorta di corridoio completamente legale e controllato, da cui i migranti potessero passare indisturbati, con la disposizione di centri volti alla distribuzione di cibo e cure mediche in punti mirati oltre a mezzi di trasporto specifici.Tuttavia, dopo un generale inasprimento della situazione, nel 2016 abbiamo avuto un crollo, che ha distrutto quanto era stato fatto di buono: un “accordo” tra Europa e Turchia stabiliva la chiusura delle frontiere, con i confini resi definitivamente invalicabili e conseguenze disastrose: la rotta è tornata ad essere pericolosissima e troppo costosa, bloccando i migranti a metà strada e dando il via ai numerosi accordi presi tra i Paesi balcanici che rendono la situazione ancora più complessa.Come accennato sopra, la Serbia e l’Ungheria costituiscono uno degli snodi principali della rotta, infatti fino al 2016 erano in molti a transitare per il loro territorio, altrettanti quelli rimasti bloccati lì. Questo perché nel 2017 i due Paesi, di comune accordo, hanno eretto un’immensa barriera di filo spinato, alta quattro metri, lunga 175 chilometri al confine: il muro di Orban, che non può essere la soluzione a questoIl muro di Orban.
problema immane. Esso costituisce solo una grave ferita nell’est dell’Europa, che sarà difficile rimarginare; inoltre la rotta Balcanica non è mai stata davvero chiusa, perché le barriere deviano solo le migrazioni, non le fermano, portandole spesso nelle mani dei trafficanti. Tuttavia questo è stato solo il più eclatante dei numerosissimi casi analoghi che troviamo in questa zona, dato che quasi tutti i Paesi balcanici hanno eretto delle barriere per impedire la venuta dei migranti. A questo punto l’unica via legale verso l’Unione Europea era un sistema di liste di attesa gestito tra le autorità serbe e quelle ungheresi, destinato a non durare, precludendo di fatto ai migranti la possibilità di spostarsi e facendoli riversare in quelle che sembrano prigioni a cielo aperto, poste nella “terra di nessuno”, tra Ungheria e Serbia. Vivono in condizioni pietose, spesso denunciate dalle Ong e dalle varie società che operano in quelle zone, che evidentemente hanno la voce roca.Conseguentemente al fallimento del programma serbo e al blocco del transito in Ungheria, con il costante aumento degli arrivi in Grecia e gli accordi del 2016, la rotta ha iniziato a spostarsi verso la Bosnia-Erzegovina, Paese in cui le decisioni politiche hanno svolto un ruolo cruciale su questo tema. La Bosnia è governata fondamentalmente da due amministrazioni che si spartiscono il territorio, e una di queste, la Repubblica Serba di Bosnia, nel 2018 aveva dichiarato di non voler accogliere migranti. Di fatto in questo modo se ne lavava le mani riversando tutto il peso della situazione sulla Federazione di Bosnia ed Erzegovina, sul cui territorio sono sorti numerosi campi di accoglienza gestiti dall’OIM (Organizzazione internazionale per le migrazioni), e finanziati dall’UE. Fra questi svolgeva un ruolo di fondamentale importanza il crocevia tra Tuzla, Sarajevo, Velika Kladuša e Bihać, circondata dal cantone di Una-Sana, agognato da chi è appena partito, nauseabondo per chi lo ha raggiunto, bloccato lì in cerca di una possibilità per raggiungere l’Europa. Tra il 2018 e il 2020 il territorio si è disseminato di numerosi altri campi, tra cui Lipa (distrutto da un incendio, che costringe oltre un migliaio di persone a vivere in rifugi di fortuna) e Borići (campo in cui sono ospitate molte famiglie, a differenza degli altri che accolgono perlopiù single-men, ovvero uomini, ma soprattutto ragazzi minorenni, che viaggiano soli per garantire una meta sicura alla propria famiglia). Poi troviamo la tendopoli di Vučjak, mai riconosciuta dall’Unione Europea e smantellata dopo 7 mesi di violenze, deportazioni e violazioni ignobili. In tutta la zona la situazione è resa ancora più critica dalla crescente mal sopportazione dei migranti da parte dei cittadini, con episodi di razzismo e xenofobia.Tuttavia, tra i Paesi citati, ce n’è uno che preoccupa più degli altri: la Croazia, meta quasi obbligata per giungere in Europa e porre fine a quest’agonia, ha attuato una politica di completa chiusura, con repressioni violente dei migranti da parte della polizia. Queste si concentrano nei "respingimenti", ovvero delle pratiche costrittive, molto spesso violente, applicate dalle autorità locali ai danni di chi viene trovato nel territorio di uno Stato senza permesso, rispedito indietro, solitamente ad una nazione confinante. In teoria ogni Paese ha il diritto di espellere chi non ha il permesso di stare sul proprio territorio, ma ci sono dei limiti da rispettare, infatti, per esempio, si ha il dovere di garantire i diritti umani e quindi anche prestare aiuto alle persone in difficoltà. Inoltre gli Stati membri dell’Unione Europea (come la Croazia) sono tenuti a rispettare il diritto d’asilo, secondo il quale una persona perseguitata nel suo Paese d’origine deve trovare asilo ed essere protetta da un’altra autorità sovrana in grado di farlo. Spesso si sente parlare perfino di “respingimenti a catena”, che si verificano quando dei Paesi (spesso quelli all’interno dell’UE) iniziano a passarsi dei migranti finché questi non escono dallo spazio Schengen, il confine comune preso dagli Stati membri, che, per quanto riguarda gli spostamenti internazionali, si comportano di fatto come una nazione sola. Dunque non è affatto improbabile che magari un gruppo di persone sparisca in Italia per poi ricomparire fuori dall’UE.E’ proprio questo a rendere la Croazia tanto difficile da raggiungere, la consapevolezza che si troverà sul proprio cammino qualcuno a ricacciarli indietro con ferocia, in un ciclo infinito, che appare impossibile modificare.
A partire dall’arrivo in Grecia inizia quello che viene chiamato “the Game”,un nome che mette i brividi: il viaggio senza fine viene paragonato a un gioco malsano, la cui “trama” si potrebbe confrontare con quella di un videogame, in cui però non ci sono seconde vite o possibilità illimitate: è semplicemente la cruda vita reale, è un gioco a cui non ci si può permettere di perdere.
Esso trova il suo momento più arduo nel tentativo di giungere dalla Bosnia-Erzegovina in Croazia e poi eventualmente a Trieste, dal momento che, non appena si varcano le foreste al confine, si deve fronteggiare la tutt’altro che remota probabilità di essere rispediti indietro dall’ignominia delle autorità locali, senza contare il clima rigidissimo che per gran parte dell’anno raggela quelle zone congelando i piedi dei malcapitati, oltre ovviamente agli scarsissimi mezzi a disposizione. Sembra davvero la trama di un videogioco, perché una cosa del genere appare semplicemente impossibile, per quanto assurda.
A questo punto mi chiedo come sia possibile che una cosa del genere avvenga proprio nel mezzo dell’Europa, sotto gli occhi di tutti, perché non si faccia qualcosa di concreto. Temo che il motivo sia sempre lo stesso: è scomodo attivarsi in situazioni difficili come questa e prendere una posizione, è molto più semplice fare finta di niente. Infatti l’UE mostra un atteggiamento contraddittorio di fronte alla faccenda: per esempio, ha finanziato il sistema di accoglienza in Bosnia-Erzegovina pretendendo che fossero le autorità locali ad occuparsi dei richiedenti asilo, continuando a negare la possibilità di chiedere protezione in Europa, diritto previsto dagli stessi trattati europei. Inoltre, le scandalose violenze e gli abusi compiuti dalla polizia croata al confine con la Bosnia continuano a passare inosservati, con il Frontex e la Commissione Europea che continuano a restare indifferenti, divenendo loro complici. La posizione presa dall’Europa sembrerebbe per ora quella di rafforzare i confini relegando agli estremi chi ha bisogno di protezione, anche a costo di appoggiare silenziosamente le numerose violazioni commesse. Nonostante ci siano state alcune proposte, per ora la situazione è in stallo, e aspetta solo una svolta. Per fortuna però, a mantenere viva la speranza per queste persone, ci sono numerose associazioni, quali AYS (“Are You Serious”); L’Altra Voce, Amnesty International e LUTVA, che non si piegano di fronte all’ingiustizia e aiutano in ogni modo possibile chi non riceve attenzione da nessuno, venendo considerato esclusivamente un peso, come se i migranti avessero qualche colpa, come se avessero scelta. La migrazione non è una colpa, ma un diritto inviolabile dell’essere umano e noi siamo stanchi che non sia trattato come tale.
JACOPO MUSCATELLO.
“Che cosa vedremmo se il confine lo guardassimo
stando dall’altra parte?”
(Shahram Khosravi, Io sono confine)
“Se capire non è possibile, conoscere
è necessario” affermava Primo Levi nel 1946 nel mentre
che scriveva Se
questo è un uomo a pochi mesi di distanza dalla
liberazione del lager. Oggi nel 2021 vi è una tipologia di campi diversi, in
Bosnia i migranti vivono in questi campi in condizioni disumane.
Abbiamo deciso di intervistare Elisa Gentiletti e
Claudia Moschini, due volontarie dell’associazione Lutva che collabora spesso
con il nostro Liceo Mamiani per organizzare viaggi formativi in Bosnia allo
scopo di sensibilizzare sulla guerra dell’ex Jugoslavia.
Il nome dell’associazione è un nome proprio di una
bambina bosniaca che avevano conosciuto molti anni fa durante il periodo di
dissoluzione della ex-Jugoslavia; come accade adesso anche in quel periodo intorno
agli anni ‘90 c’erano dei profughi lungo la rotta balcanica, ma erano balcanici, cioè scappavano dalla guerra nei Balcani. Allora Claudia faceva volontariato in uno
di questi campi profughi, dove ha conosciuto questa bambina, che una volta
finita la guerra, rientrata nel proprio villaggio, ha avuto un’incidente
stradale, così hanno deciso di dedicare in sua memoria il nome dell’associazione.
Il vostro gesto è stato molto coraggioso e
altruista, com'è stato vivere con i vostri occhi e sulla vostra pelle questo
tipo di esperienza? Cosa vi ha spinto a intraprendere questa scelta e in cosa
vi ha cambiato?
Elisa: Grazie
per la domanda, il coraggio che possiamo aver messo io, Claudia e gli altri
volontari a organizzare questo tipo di esperienze non è un coraggio maggiore di
quello che avete messo voi due oggi ad essere qui. A volte tendiamo a valutare
una cosa più o meno coraggiosa, più o meno altruista, in base all’entità
dell’azione, però non è così, perché ognuno fa quello che può con gli strumenti
che ha in quel momento e quindi penso che il vostro gesto di richiedere
un’intervista sia una cosa estremamente coraggiosa.
Personalmente
quello che mi spinge e mi ha spinto a interessarmi, a dedicare il mio tempo
libero (perché appunto siamo volontari) alla rotta balcanica ma più in generale
ai diritti umani, si può riassumere con un pensiero che ho avuto quando alla
vostra età sono andata per la prima volta in Bosnia con la nostra associazione
e Claudia.
Ho pensato che le possibilità di una persona di
costruirsi la propria vita e di fare quello che vuole fare dipendano dalla
geografia di dove nasce: quindi l’idea che io sono Elisa, ho 23 anni, voglio
diventare un medico, studio medicina, faccio volontariato, esco con i miei amici… ho
la possibilità di cercare di realizzarmi. Ma potrebbe esserci benissimo un’Elisa
identica a me con i miei stessi sogni nata in Siria, Afghanistan o Pakistan che
oggi si può trovare in un campo in Bosnia e non ha queste opportunità. Questa
cosa mi è sempre sembrata profondamente ingiusta e quindi è nato dentro di me
un senso di responsabilità, di giustizia, l’urgenza di accorciare le distanze
tra queste due Elise, tra queste due realtà, e dà lì con le possibilità che ho
avuto mano a mano ho fatto quello che potevo.
Claudia: Come
sempre mi ritrovo molto nelle parole di Elisa, soprattutto rispetto a cos’è coraggioso e cosa non lo è, sono
d’accordissimo sul fatto che chi si assume la responsabilità di lottare per un
mondo giusto in qualunque forma e strumento lo faccia è coraggioso.
Io
ho un’esperienza più lunga di vita e devo dire che ho sempre dedicato una parte
della mia vita al volontariato, questo l’ho fatto non tanto perché sono una
persona altruista ma perché fare volontariato ti restituisce tanto a vari
livelli, semplificando lo faccio per me stessa, nel senso che nel muovermi
verso gli altri, nell’incontrare persone, nel cercare di costruire delle
relazioni, quello che torna indietro è un grande arricchimento, un’apertura
mentale, una capacità di leggere la realtà, di cercare di non avere pregiudizi. È
un cambiamento continuo di stimolo e di crescita personale.
Poi
la cosa appunto che non dobbiamo mai scordarci è che siamo tutte persone,
abbiamo tutte gli stessi bisogni, e quindi mi viene in mente che quando
sentiamo delle notizie date in un certo modo o anche delle persone lamentarsi
di tutta la gente che arriva da noi, dobbiamo fare una considerazione: noi ci
sposteremmo così facilmente dalla nostra casa? Noi lasceremmo la nostra stanza,
i nostri amici, la nostra scuola, la nostra quotidianità così, per andare a
vedere se in un altro paese si vive meglio? È chiaro che la risposta è no, chi
lo fa è perché è costretto, non c’è una scelta libera nell’abbandonare la tua
casa e la tua famiglia.
Come venivate trattate dai
poliziotti e dai migranti stessi?
Claudia: La
polizia va e viene, fa dei controlli, porta dei migranti, però
nell’organizzazione quotidiana dei campi che noi abbiamo visitato non erano molto
presenti, generalmente ci sono delle guardie di sicurezza all’esterno e quindi
devi essere autorizzato per entrare, noi abbiamo avuto il pass chiedendolo in
precedenza, poi dentro c’è il personale OIM, la Croce Rossa o altre
associazioni. Dentro
i campi abbiamo incontrato la polizia solo una volta a Vucjak, ma non ci hanno
calcolati, la loro attenzione è concentrata principalmente sui migranti.
Per
quanto riguarda la polizia alle frontiere noi europei abbiamo un passaporto e
la possibilità di spostarci dentro e fuori l’UE in circa 188 paesi, le persone
che emigrano hanno ovviamente molte meno possibilità. Certe volte a noi bastava
la carta d’identità per passare e quando ci chiedevano dove fossimo dirette
ovviamente abbiamo celato il fatto che andavamo a portare le medicine ai profughi, le
abbiamo nascoste nelle valigie, anche perché ci sono poi delle leggi per far
attraversare le merci alle frontiere.
Noi abbiamo avuto la fortuna di essere
state trattate bene, quelli che venivano trattati male erano gli attivisti sia
bosniaci che europei che stanno sul posto quotidianamente. Da un paio d’anni si
sono riscontrate molte violenze sui volontari e sulle organizzazioni non
governative, in un clima di criminalizzazione della solidarietà che abbiamo
visto anche con l’ONG.
Elisa: La
mia percezione del comportamento dei migranti nei nostri confronti è stata
varia, sono persone e come tali ognuno è fatto a suo modo, è molto soggettivo
anche per loro. Con
i ragazzi giovani miei coetanei era più facile, perché conoscevano l’inglese e
anche la sensazione di essere coetanei è presente, poteva capitarti di stare lì a
parlare, ti raccontavano da dove erano partiti… .
Quello che mi ha colpito era
anche la voglia di scherzare di alcuni, ti prendevano in giro per l’Italia, gli
spaghetti: ti chiedi come fanno a scherzare e ridere in una situazione del
genere. E
poi invece ci sono anche altre persone che preferiscono non parlarne.
Il
campo per queste persone, in quel momento è come la loro casa, e quello che ho
sempre cercato di fare io è avere una forte discrezione, di riuscire
a capire, come quando conosci una persona nuova, com’è fatta quella persona,
quindi se vedevo che avevano voglia di parlare, raccontare, c’era l’apertura
totale, ma si deve anche fare attenzione a non invadere perché comunque tu stai entrando
in casa di qualcun altro e devi farlo con la massima discrezione.
Quindi
venivamo trattate bene, con rispetto ma con una differenza interindividuale di
approccio che ognuno riservava nei confronti di una persona sconosciuta, che viene tra l’altro
da un luogo in cui tu vorresti essere e che si pone un po’ come quella che ti
aiuta dall’alto, non è facile vederlo dall’altra parte.
Per
quanto riguarda l’approccio medico, la visita medica che voi avete in mente e
che io avevo in mente non c’entra nulla, la tenda medica era un luogo dove non
c’era privacy, c’era anche un forte imbarazzo. Immaginatevi di essere visitati
davanti a tutta l’altra gente, da delle persone che non avete mai visto, c’era
la dottoressa, una ragazza specializzanda e io, che ero una studentessa, tre
donne che ti visitano dove non ci sono divisori o ambulatori; anche se sai che
quelle persone sono lì per darti una mano non è una situazione facile.
Claudia: La
situazione dei campi profughi è proprio come un limbo, in cui le
persone stanno tutto il giorno a non fare nulla in un posto dove non hai
privacy, non hai acqua corrente, non hai presa elettrica per ricaricare il
cellulare con cui contatti chi hai lasciato a casa. Stai
lì aspettando di partire per il game, questa è l’unica cosa che fai, passi il
tempo, quindi le persone sono tutte alienate, provate psicologicamente perché
passa il tempo e non sai che ne sarà di te.
Come diceva Elisa, quando ci parli
poi è anche molto divertente, abbiamo riso e scherzato… .
Un
ragazzo che era appena tornato dal game si lamentava
perché era la settima volta che provava ad attraversare la frontiera e
fermandolo gli avevano distrutto il cellulare, lo avevano picchiato e fin lì ok, ma gli avevano anche bruciato tutte le cose che aveva comprato: i beni alimentari,
per cui aveva speso 100 marchi (50 euro) che gli potevano servire. Per dire che
non c’è mai un limite per quello che fanno alla frontiera.
- Reclusi in questi campi,
esclusi dal mondo, alcuni migranti non credono neanche all'esistenza del Covid,
come vi siete comportate nei confronti di queste persone che negavano il virus?
(Sempre se la vostra esperienza coincide con il periodo covid)
Elisa: Avevamo programmato di tornare durante il primo lockdown ma abbiamo pensato che l’atto maggiore di
responsabilità fosse di non andare visto che in Bosnia ancora non c’erano stati
casi e in Italia non c’erano ancora informazioni certe, era tutto molto confuso
all’inizio della pandemia. Noi non siamo andate, il volontariato si è fermato
ma siamo rimaste in contatto con alcuni amici che lavorano lì.
Il
problema maggiore non è quello di credere o meno al Covid perché di queste
persone ce ne sono state anche qui; le persone che vivono una situazione di
pericolo costante percepiscono diversamente la paura. Il problema più grosso è
stato come la situazione è cambiata, è stata la carenza di dispositivi di
sicurezza per tutti, aggravata dalla già carente igiene, sono state aggiunte
ulteriori restrizioni che hanno peggiorato ulteriormente la qualità di vita di
queste persone.
Ci
sono molti migranti anche al di fuori dei campi, che vivono in case
abbandonate, le organizzazioni distribuiscono i beni anche a queste persone e
questo in un’ottica di restrizione globale è stato impedito a livello legale. n un primo momento
l’attenzione sul Covid ha scombussolato un po’ tutti, anche le forze dei
poliziotti ai controlli delle frontiere sono state impiegate per altro e poi, con
la riorganizzazione comune, c’è stato un ulteriore confinamento all’interno dei
campi di queste persone. Per fortuna non ci sono stati focolai importanti
all’interno dei campi. Dal punto di vista medico le persone che hanno attraversato
la rotta sono molto forti a livello immunitario e questo fattore ha aiutato.
- Bihac potrebbe essere definita
la nuova Lampedusa ma c'è una differenza: Bihac all'inizio accoglieva gli
emigrati per empatia, anche loro reduci dalla guerra dell’ex Jugoslavia si
rivedevano nei loro panni, ma poi hanno deciso di chiudere le porte e di
diventare inospitali, persino l’associazione OIM (Organizzazione internazionale
delle migrazioni) ha abbandonato l’amministrazione dei campi dei migranti. Una
delle cause di questo cambio di atteggiamento potrebbe essere la paura di un
contagio dovuto alla Pandemia?
Claudia: Riguardo
all’OIM è un’associazione internazionale, è un’agenzia dell’ONU e si occupa in
particolare di migrazioni, siamo noi che la indirizziamo in Bosnia o altri
posti. Non
ha abbandonato tutti i campi, per fortuna, in realtà si occupa di molti
campi; ha deciso di lasciare il campo di Lipa perché il comune di Bihac ha voluto
spostare i profughi al di fuori della città per portarli a Lipa,
questo posto a 30 km di distanza in mezzo alle montagne.
L’OIM
ha ribattuto l’inadeguatezza del posto di ospitare tanti migranti: soprattutto
per la stagione invernale il comune avrebbe dovuto attrezzarlo con tende
riscaldate… ma le dovute precauzioni non sono state prese e arrivato l’inverno
l’OIM ha iniziato a denunciare la situazione affermando che se non fossero
stati effettuati i lavori avrebbero abbandonato la gestione poiché non si
volevano assumere la responsabilità di trovarsi con persone che rischiano di
morire di freddo, quindi è per questo che quel campo è stato abbandonato.
Mentre
i campi a Sarajevo e Monstar sono ancora gestiti dall’OIM, spesso con tante
critiche perché mentre in Serbia l’Europa ha dato soldi per gestire i migranti
direttamente alla Caritas, alla Croce Rossa o ai Comuni Serbi in Bosnia è
stata data la gestione del fenomeno migratorio all’OIM, quindi i 90 milioni di
euro dati a quest’organizzazione delle Nazioni Unite, la Bosnia non li ha
neanche visti.
Il
cambiamento di atteggiamento della popolazione Bosniaca, che è una delle più
ospitali al mondo, non è dovuto alla paura della pandemia, ma dal sentirsi in
qualche modo abbandonati dall’Europa per la seconda/terza volta nella gestione
di questo fenomeno. Noi, Europa che siamo un paese ricco e “potente”
esternalizziamo la gestione dei migranti al di fuori delle nostre frontiere e
li lasciamo in paesi già a terra economicamente per loro stessi, figuratevi
cosa vuol dire gestire un fenomeno come quello di avere tanti migranti, che poi
non sono tanti, ma teniamo conto che la Bosnia ha sulla carta 4 milioni di
abitanti cioè, la Lombardia ne ha dieci... .
Quindi
capite che anche 10 mila profughi, che è il numero che si stima solo in Bosnia, è
un numero piccolo ma le problematiche che ne derivano sono tante. La
popolazione impoverita a causa del Covid e ancora prima della guerra, chiaramente
non ha più retto questa grande presenza e anche l’aumento della criminalità:
nel campo di Bira c’erano in alcuni periodi 2.500 persone in una città di
qualche migliaio di abitanti molto poveri; alcuni migranti per cercare qualcosa
da mangiare o i soldi per andare avanti nel game andavano nelle case e rubavano… comprensibile, ma nella popolazione questo ha generato un sentimento di stanchezza,
frustrazione e negazione di questo fenomeno.
- Che tipologia di ferite e
malattie avete riscontrato maggiormente? La causa delle ferite che curavate,
era perlopiù dovuta alla violenza del game e della polizia o anche da scontri
interni tra i migranti? Molti migranti parlano del fatto che la polizia croata
dopo averli picchiati e pestati li rimandi indietro a piedi nudi in un inverno
gelido e nevoso, come mai questo gesto di tortura disumano?
Elisa: I
due nuclei principali di problematiche mediche all’interno del campo erano perlopiù
ferite del viaggio e malattie legate all’igiene, poi ci sono tutte le
patologie sottostanti che le singole persone possono avere. L’igiene è molto
scarsa, quindi sono frequenti patologie come la scabbia, che è un parassita della
pelle; le ferite da percosse dovute alla violenza delle autorità al confine si
riconoscono molto bene (ematomi, il classico segno del manganello); ci sono
anche diverse immagini che sono state diffuse per testimoniare questo tipo di
violenza.
Un ragazzo ci aveva raccontato che da qualche tempo la
polizia non li picchiava più, ma toglieva loro solo le scarpe e gli zaini per poi
rimandarli indietro, è vero che una forma di violenza può essere il pestaggio e
le botte, ma in realtà questo gesto di
privazione comporta un altro tipo di ferite: rimandare indietro una persona
scalza per i boschi per chilometri, implica che se è estate torni con ferite da lacerazioni
(tagli, schegge) che poi si sovra infettano, se è inverno che torni con i piedi
congelati, in necrosi, in cancrena (pelle nera, tessuto morto) che poi deve
essere amputata.
La violenza diretta è un conto, ma togliere le scarpe
è una violenza quasi peggiore; quando una persona torna dal game è difficile
capire cosa è imputabile alle autorità del paese in cui cercano di dirigersi e
cosa del tragitto percorso, perché le due cose sono strettamente correlate.
Il problema in questi casi non è tanto la cura della
ferita, va ripulita se è grave e se c’è un rischio alto di infezione puoi anche somministrare un antibiotico; il problema è la cura che il paziente stesso riserva alla
ferita: bisogna cambiare la garza, pulirla, lavarla bene, disinfettarla, questa
è la cosa più difficile ed è anche la cosa che mi è rimasta più impressa. Spiegavo
alle persone come prendersi cura della ferita e dentro di me pensavo: "In questa
situazione surreale in cui non puoi nemmeno lavarti con l’acqua calda per farti
una doccia figuriamoci se questa persona ha come priorità quella di cambiarsi
la garza".
- Anche donne e bambini
partecipano al game?
Elisa: donne
e bambini li abbiamo incontrati in un altro campo: quello che abbiamo
precedentemente citato era un campo per “single men”, uomini o ragazzi soli. Le famiglie sono in altri campi, noi li abbiamo visti
al campo Borici, che era un’ex studentato, una struttura fatta in muratura, molto
degradata. Passano sempre per il game, ma in questo casi i genitori con i
bambini a carico devono impegnarsi di più, magari proverai meno volte, lascerai passare l’inverno… .
Claudia:
Non sono solo gli uomini che subiscono violenze, ma anche le famiglie intere, si
vedono di meno perché hanno paura di essere separati e quindi ci raccontavano
che spesso si nascondono, non vanno nei campi ufficiali ma vivono nei ripari,
nei boschi o nelle case abbandonate.
Nel campo Borici dove siamo state, appena arrivate mi
si è avvicinato un ragazzo con la moglie e un bambino, con in mano una busta
gialla: io all’inizio ero titubante. Mi chiese di aprirla, io curiosa la aprii e dentro
c’era un asciugacapelli, un phon. E in inglese mi chiese se potevo
comprarglielo perché il giorno prima erano tornati dal game e la polizia Croata
li aveva beccati e rimandati indietro e avevano bisogno di rifare un po’ di
soldi per tornare al game. Quindi sì, ci sono anche le famiglie.
- La condizione dei migranti in
Bosnia è migliorata o peggiorato in modo significativo con qualche evento in
particolare?
Elisa:
è
importante avere una visione globale di questa domanda: noi ora parliamo molto
di Bosnia ma in realtà la rotta balcanica coinvolge tanti altri paesi e c'è stata una serie di eventi da quando le persone hanno incominciato a passare per
questa rotta, che poi c’è sempre stata, che l'hanno modificata.
Il
momento in cui si è iniziato a parlare di rotta balcanica era più o meno il
2015, per farvi capire allora la Bosnia non era coinvolta direttamente nella
rotta, questa passava sopra quindi dalla Grecia, si andava in Macedonia e poi
si passava per la Serbia e da lì le persone cercavano di arrivare o in Ungheria
o in Croazia. Nel corso del tempo una serie di eventi ha cambiato le carte in tavola e peggiorato progressivamente la situazione. Questi
cambiamenti sono dovuti dalle scelte di gestione del problema da parte
dell’Europa.
A un certo punto l’Europa ha preso degli accordi con la
Turchia per cercare di confinare il più possibile tutte queste persone e questo
clima generale di intolleranza e chiusura è aumentato sempre di più ed ha
portato a un gesto molto eclatante nel 2017: l’Ungheria ha alzato proprio un
muro di filo spinato (il muro di Orban), questo gesto è sconvolgente ma è solo
l’apice di una serie di scelte, che però tutta la comunità internazionale ha
fatto. Questo muro ci fa capire come la Bosnia è solo un piccolo pezzettino del
mosaico. Quindi secondo me la cosa importante da capire è che le scelte e gli
avvenimenti bisogna sempre guardarli su larga scala, non solo chiedersi cos’ha
peggiorato la situazione in Bosnia, ma guardare tutto quello che hanno fatto gli
stati e quello che abbiamo fatto noi, come Italia ma soprattutto come Europa.
Claudia: Se
dobbiamo evidenziare uno spartiacque è appunto l’accordo Europa-Turchia nel marzo
del 2016, perché prima di quella data c’è stato un momento in cui la rotta
balcanica era legale: tu potevi passare da un paese all’altro con mezzi di
trasporto messi a disposizione dei vari stati e entrare in Europa e fare
domanda d’asilo, solo che in quell’anno sono arrivati in Germania un milione di
rifugiati e l’Europa spaventata si è chiusa sempre di più.
Di
fronte a una difficoltà la rotta cambia, il sogno delle persone di andare verso
una vita migliore non si ferma, quindi se la rotta balcanica ha aumentato i
numeri perché attraversare il mare Mediterraneo dalla Libia era troppo pericoloso, adesso che la rotta balcanica sta diventando più pericolosa di quella
mediterranea si stanno creando altre rotte. Questo ci insegna che se ci sono
degli ostacoli si trova il modo per aggirarli in qualche modo.
-In una situazione di pandemia
globale come questa si tende a perdere un po' di vista la questione dei diritti
umani, sembrano astratti e lontani in confronto a quello che sta accadendo e
questioni del genere tendono a passare in secondo piano, soprattutto argomenti
come la rotta Balcanica che non sono mai stati trattati con dovuta attenzione.
Come possiamo impedire che ciò accada?
Elisa:
è vero che la situazione della pandemia ha destabilizzato tutti, ma anche
giustamente perché è un’emergenza globale ed è normale che sia così, ma anche
prima non è che si parlasse tanto di Rotta balcanica. Questa però domanda mi ha
fatto venire in mente proprio la differenza tra notizia e informazione: purtroppo
viviamo in un mondo in cui tutto passa attraverso ciò che fa notizia, ma questo
non è informazione, ad esempio i riflettori sulla rotta balcanica si sono
accesi quest’inverno a Lipa, con immagini forti come la gente nella neve, ma si
erano accesi anche nel 2015 con la foto di Alan Kurdi, il bambino con la
maglietta rossa ritrovato morto sulla spiaggia della Turchia.
Il
problema di queste notizie è che si possono usare per informare, ma poi la
notizia non esaurisce l’informazione ed è questo il problema: viviamo in un
mondo in cui spesso e volentieri c’è il momento del trend dell’argomento, la
gente legge perché si impressiona davanti a una fotografia, però poi i
riflettori si spengono. Adesso si parla molto meno della rotta, non c’è più la neve ma le persone continuano ad esserci, la situazione è ancora drammatica eppure
non se ne parla più.
Quindi
la cosa che possiamo fare è mantenere alta l’attenzione, trasformare la notizia
in informazione e non aver bisogno di qualcosa di gravissimo o che faccia
scalpore per continuare a parlane, insomma, quello che state facendo voi,
condividere e approfondire. Ma anche parlarne con la propria famiglia e i propri
amici.
Claudia:
Esatto, un’altra cosa che possiamo fare è coltivare una passione che abbia a
che fare con un diritto umano, nel senso che non possiamo occuparci di tutto: da tanti anni la mia passione sono la Bosnia, i migranti e mi occupo di immigrazione
anche per lavoro ed è chiaro che bisogna scegliere un ambito, una passione e su
quella non abbassare mai la guardia, cercare di fare sempre la propria parte: può
essere il clima, la difesa dei diritti delle donne, qualsiasi cosa vi possa
appassionare!
SARA SANTORI
Grazie mille a tutti per la collaborazione e anche ai nostri lettori!
-SARA SANTORI E JACOPO MUSCATELLO-
esistente già da parecchio, che col passare degli anni ha iniziato ad assumere sempre più importanza, fino a superare la sempre più pericolosa rotta del Mediterraneo centrale, che collega l’Africa con l’Italia. Ora però, non passi il messaggio che la rotta Balcanica sia una passeggiata: la maggior parte dei migranti che la affrontano vengono da Siria, Iraq, Afghanistan e Turchia, e intraprendono un viaggio straziante che li porta dapprima in Grecia, per poi superare il confine con la Macedonia e da qui giungere in Serbia, Ungheria, Bosnia-Erzegovina e, come obiettivo privilegiato, in Croazia, porta per l’occidente, che tuttavia appare quasi irraggiungibile.
Il muro di Orban. |
problema immane. Esso costituisce solo una grave ferita nell’est dell’Europa, che sarà difficile rimarginare; inoltre la rotta Balcanica non è mai stata davvero chiusa, perché le barriere deviano solo le migrazioni, non le fermano, portandole spesso nelle mani dei trafficanti. Tuttavia questo è stato solo il più eclatante dei numerosissimi casi analoghi che troviamo in questa zona, dato che quasi tutti i Paesi balcanici hanno eretto delle barriere per impedire la venuta dei migranti. A questo punto l’unica via legale verso l’Unione Europea era un sistema di liste di attesa gestito tra le autorità serbe e quelle ungheresi, destinato a non durare, precludendo di fatto ai migranti la possibilità di spostarsi e facendoli riversare in quelle che sembrano prigioni a cielo aperto, poste nella “terra di nessuno”, tra Ungheria e Serbia. Vivono in condizioni pietose, spesso denunciate dalle Ong e dalle varie società che operano in quelle zone, che evidentemente hanno la voce roca.
A partire dall’arrivo in Grecia inizia quello che viene chiamato “the Game”,un nome che mette i brividi: il viaggio senza fine viene paragonato a un gioco malsano, la cui “trama” si potrebbe confrontare con quella di un videogame, in cui però non ci sono seconde vite o possibilità illimitate: è semplicemente la cruda vita reale, è un gioco a cui non ci si può permettere di perdere.
Esso trova il suo momento più arduo nel tentativo di giungere dalla Bosnia-Erzegovina in Croazia e poi eventualmente a Trieste, dal momento che, non appena si varcano le foreste al confine, si deve fronteggiare la tutt’altro che remota probabilità di essere rispediti indietro dall’ignominia delle autorità locali, senza contare il clima rigidissimo che per gran parte dell’anno raggela quelle zone congelando i piedi dei malcapitati, oltre ovviamente agli scarsissimi mezzi a disposizione. Sembra davvero la trama di un videogioco, perché una cosa del genere appare semplicemente impossibile, per quanto assurda.
“Che cosa vedremmo se il confine lo guardassimo stando dall’altra parte?”
(Shahram Khosravi, Io sono confine)
“Se capire non è possibile, conoscere
è necessario” affermava Primo Levi nel 1946 nel mentre
che scriveva Se
questo è un uomo a pochi mesi di distanza dalla
liberazione del lager. Oggi nel 2021 vi è una tipologia di campi diversi, in
Bosnia i migranti vivono in questi campi in condizioni disumane.
Abbiamo deciso di intervistare Elisa Gentiletti e
Claudia Moschini, due volontarie dell’associazione Lutva che collabora spesso
con il nostro Liceo Mamiani per organizzare viaggi formativi in Bosnia allo
scopo di sensibilizzare sulla guerra dell’ex Jugoslavia.
Il nome dell’associazione è un nome proprio di una
bambina bosniaca che avevano conosciuto molti anni fa durante il periodo di
dissoluzione della ex-Jugoslavia; come accade adesso anche in quel periodo intorno
agli anni ‘90 c’erano dei profughi lungo la rotta balcanica, ma erano balcanici, cioè scappavano dalla guerra nei Balcani. Allora Claudia faceva volontariato in uno
di questi campi profughi, dove ha conosciuto questa bambina, che una volta
finita la guerra, rientrata nel proprio villaggio, ha avuto un’incidente
stradale, così hanno deciso di dedicare in sua memoria il nome dell’associazione.
Il vostro gesto è stato molto coraggioso e
altruista, com'è stato vivere con i vostri occhi e sulla vostra pelle questo
tipo di esperienza? Cosa vi ha spinto a intraprendere questa scelta e in cosa
vi ha cambiato?
Elisa: Grazie
per la domanda, il coraggio che possiamo aver messo io, Claudia e gli altri
volontari a organizzare questo tipo di esperienze non è un coraggio maggiore di
quello che avete messo voi due oggi ad essere qui. A volte tendiamo a valutare
una cosa più o meno coraggiosa, più o meno altruista, in base all’entità
dell’azione, però non è così, perché ognuno fa quello che può con gli strumenti
che ha in quel momento e quindi penso che il vostro gesto di richiedere
un’intervista sia una cosa estremamente coraggiosa.
Personalmente
quello che mi spinge e mi ha spinto a interessarmi, a dedicare il mio tempo
libero (perché appunto siamo volontari) alla rotta balcanica ma più in generale
ai diritti umani, si può riassumere con un pensiero che ho avuto quando alla
vostra età sono andata per la prima volta in Bosnia con la nostra associazione
e Claudia.
Ho pensato che le possibilità di una persona di
costruirsi la propria vita e di fare quello che vuole fare dipendano dalla
geografia di dove nasce: quindi l’idea che io sono Elisa, ho 23 anni, voglio
diventare un medico, studio medicina, faccio volontariato, esco con i miei amici… ho
la possibilità di cercare di realizzarmi. Ma potrebbe esserci benissimo un’Elisa
identica a me con i miei stessi sogni nata in Siria, Afghanistan o Pakistan che
oggi si può trovare in un campo in Bosnia e non ha queste opportunità. Questa
cosa mi è sempre sembrata profondamente ingiusta e quindi è nato dentro di me
un senso di responsabilità, di giustizia, l’urgenza di accorciare le distanze
tra queste due Elise, tra queste due realtà, e dà lì con le possibilità che ho
avuto mano a mano ho fatto quello che potevo.
Claudia: Come
sempre mi ritrovo molto nelle parole di Elisa, soprattutto rispetto a cos’è coraggioso e cosa non lo è, sono
d’accordissimo sul fatto che chi si assume la responsabilità di lottare per un
mondo giusto in qualunque forma e strumento lo faccia è coraggioso.
Io
ho un’esperienza più lunga di vita e devo dire che ho sempre dedicato una parte
della mia vita al volontariato, questo l’ho fatto non tanto perché sono una
persona altruista ma perché fare volontariato ti restituisce tanto a vari
livelli, semplificando lo faccio per me stessa, nel senso che nel muovermi
verso gli altri, nell’incontrare persone, nel cercare di costruire delle
relazioni, quello che torna indietro è un grande arricchimento, un’apertura
mentale, una capacità di leggere la realtà, di cercare di non avere pregiudizi. È
un cambiamento continuo di stimolo e di crescita personale.
Poi
la cosa appunto che non dobbiamo mai scordarci è che siamo tutte persone,
abbiamo tutte gli stessi bisogni, e quindi mi viene in mente che quando
sentiamo delle notizie date in un certo modo o anche delle persone lamentarsi
di tutta la gente che arriva da noi, dobbiamo fare una considerazione: noi ci
sposteremmo così facilmente dalla nostra casa? Noi lasceremmo la nostra stanza,
i nostri amici, la nostra scuola, la nostra quotidianità così, per andare a
vedere se in un altro paese si vive meglio? È chiaro che la risposta è no, chi
lo fa è perché è costretto, non c’è una scelta libera nell’abbandonare la tua
casa e la tua famiglia.
Come venivate trattate dai poliziotti e dai migranti stessi?
Claudia: La polizia va e viene, fa dei controlli, porta dei migranti, però nell’organizzazione quotidiana dei campi che noi abbiamo visitato non erano molto presenti, generalmente ci sono delle guardie di sicurezza all’esterno e quindi devi essere autorizzato per entrare, noi abbiamo avuto il pass chiedendolo in precedenza, poi dentro c’è il personale OIM, la Croce Rossa o altre associazioni. Dentro i campi abbiamo incontrato la polizia solo una volta a Vucjak, ma non ci hanno calcolati, la loro attenzione è concentrata principalmente sui migranti.
Per quanto riguarda la polizia alle frontiere noi europei abbiamo un passaporto e la possibilità di spostarci dentro e fuori l’UE in circa 188 paesi, le persone che emigrano hanno ovviamente molte meno possibilità. Certe volte a noi bastava la carta d’identità per passare e quando ci chiedevano dove fossimo dirette ovviamente abbiamo celato il fatto che andavamo a portare le medicine ai profughi, le abbiamo nascoste nelle valigie, anche perché ci sono poi delle leggi per far attraversare le merci alle frontiere.
Noi abbiamo avuto la fortuna di essere state trattate bene, quelli che venivano trattati male erano gli attivisti sia bosniaci che europei che stanno sul posto quotidianamente. Da un paio d’anni si sono riscontrate molte violenze sui volontari e sulle organizzazioni non governative, in un clima di criminalizzazione della solidarietà che abbiamo visto anche con l’ONG.
Elisa: La mia percezione del comportamento dei migranti nei nostri confronti è stata varia, sono persone e come tali ognuno è fatto a suo modo, è molto soggettivo anche per loro. Con i ragazzi giovani miei coetanei era più facile, perché conoscevano l’inglese e anche la sensazione di essere coetanei è presente, poteva capitarti di stare lì a parlare, ti raccontavano da dove erano partiti… .
Quello che mi ha colpito era anche la voglia di scherzare di alcuni, ti prendevano in giro per l’Italia, gli spaghetti: ti chiedi come fanno a scherzare e ridere in una situazione del genere. E poi invece ci sono anche altre persone che preferiscono non parlarne.
Il
campo per queste persone, in quel momento è come la loro casa, e quello che ho
sempre cercato di fare io è avere una forte discrezione, di riuscire
a capire, come quando conosci una persona nuova, com’è fatta quella persona,
quindi se vedevo che avevano voglia di parlare, raccontare, c’era l’apertura
totale, ma si deve anche fare attenzione a non invadere perché comunque tu stai entrando
in casa di qualcun altro e devi farlo con la massima discrezione.
Quindi venivamo trattate bene, con rispetto ma con una differenza interindividuale di approccio che ognuno riservava nei confronti di una persona sconosciuta, che viene tra l’altro da un luogo in cui tu vorresti essere e che si pone un po’ come quella che ti aiuta dall’alto, non è facile vederlo dall’altra parte.
Per quanto riguarda l’approccio medico, la visita medica che voi avete in mente e che io avevo in mente non c’entra nulla, la tenda medica era un luogo dove non c’era privacy, c’era anche un forte imbarazzo. Immaginatevi di essere visitati davanti a tutta l’altra gente, da delle persone che non avete mai visto, c’era la dottoressa, una ragazza specializzanda e io, che ero una studentessa, tre donne che ti visitano dove non ci sono divisori o ambulatori; anche se sai che quelle persone sono lì per darti una mano non è una situazione facile.
Claudia: La situazione dei campi profughi è proprio come un limbo, in cui le persone stanno tutto il giorno a non fare nulla in un posto dove non hai privacy, non hai acqua corrente, non hai presa elettrica per ricaricare il cellulare con cui contatti chi hai lasciato a casa. Stai lì aspettando di partire per il game, questa è l’unica cosa che fai, passi il tempo, quindi le persone sono tutte alienate, provate psicologicamente perché passa il tempo e non sai che ne sarà di te.
Come diceva Elisa, quando ci parli poi è anche molto divertente, abbiamo riso e scherzato… .
Un ragazzo che era appena tornato dal game si lamentava perché era la settima volta che provava ad attraversare la frontiera e fermandolo gli avevano distrutto il cellulare, lo avevano picchiato e fin lì ok, ma gli avevano anche bruciato tutte le cose che aveva comprato: i beni alimentari, per cui aveva speso 100 marchi (50 euro) che gli potevano servire. Per dire che non c’è mai un limite per quello che fanno alla frontiera.
- Reclusi in questi campi, esclusi dal mondo, alcuni migranti non credono neanche all'esistenza del Covid, come vi siete comportate nei confronti di queste persone che negavano il virus? (Sempre se la vostra esperienza coincide con il periodo covid)
Elisa: Avevamo programmato di tornare durante il primo lockdown ma abbiamo pensato che l’atto maggiore di
responsabilità fosse di non andare visto che in Bosnia ancora non c’erano stati
casi e in Italia non c’erano ancora informazioni certe, era tutto molto confuso
all’inizio della pandemia. Noi non siamo andate, il volontariato si è fermato
ma siamo rimaste in contatto con alcuni amici che lavorano lì.
Il
problema maggiore non è quello di credere o meno al Covid perché di queste
persone ce ne sono state anche qui; le persone che vivono una situazione di
pericolo costante percepiscono diversamente la paura. Il problema più grosso è
stato come la situazione è cambiata, è stata la carenza di dispositivi di
sicurezza per tutti, aggravata dalla già carente igiene, sono state aggiunte
ulteriori restrizioni che hanno peggiorato ulteriormente la qualità di vita di
queste persone.
Ci sono molti migranti anche al di fuori dei campi, che vivono in case abbandonate, le organizzazioni distribuiscono i beni anche a queste persone e questo in un’ottica di restrizione globale è stato impedito a livello legale. n un primo momento l’attenzione sul Covid ha scombussolato un po’ tutti, anche le forze dei poliziotti ai controlli delle frontiere sono state impiegate per altro e poi, con la riorganizzazione comune, c’è stato un ulteriore confinamento all’interno dei campi di queste persone. Per fortuna non ci sono stati focolai importanti all’interno dei campi. Dal punto di vista medico le persone che hanno attraversato la rotta sono molto forti a livello immunitario e questo fattore ha aiutato.
- Bihac potrebbe essere definita la nuova Lampedusa ma c'è una differenza: Bihac all'inizio accoglieva gli emigrati per empatia, anche loro reduci dalla guerra dell’ex Jugoslavia si rivedevano nei loro panni, ma poi hanno deciso di chiudere le porte e di diventare inospitali, persino l’associazione OIM (Organizzazione internazionale delle migrazioni) ha abbandonato l’amministrazione dei campi dei migranti. Una delle cause di questo cambio di atteggiamento potrebbe essere la paura di un contagio dovuto alla Pandemia?
Claudia: Riguardo all’OIM è un’associazione internazionale, è un’agenzia dell’ONU e si occupa in particolare di migrazioni, siamo noi che la indirizziamo in Bosnia o altri posti. Non ha abbandonato tutti i campi, per fortuna, in realtà si occupa di molti campi; ha deciso di lasciare il campo di Lipa perché il comune di Bihac ha voluto spostare i profughi al di fuori della città per portarli a Lipa, questo posto a 30 km di distanza in mezzo alle montagne.
L’OIM ha ribattuto l’inadeguatezza del posto di ospitare tanti migranti: soprattutto per la stagione invernale il comune avrebbe dovuto attrezzarlo con tende riscaldate… ma le dovute precauzioni non sono state prese e arrivato l’inverno l’OIM ha iniziato a denunciare la situazione affermando che se non fossero stati effettuati i lavori avrebbero abbandonato la gestione poiché non si volevano assumere la responsabilità di trovarsi con persone che rischiano di morire di freddo, quindi è per questo che quel campo è stato abbandonato.
Mentre i campi a Sarajevo e Monstar sono ancora gestiti dall’OIM, spesso con tante critiche perché mentre in Serbia l’Europa ha dato soldi per gestire i migranti direttamente alla Caritas, alla Croce Rossa o ai Comuni Serbi in Bosnia è stata data la gestione del fenomeno migratorio all’OIM, quindi i 90 milioni di euro dati a quest’organizzazione delle Nazioni Unite, la Bosnia non li ha neanche visti.
Il
cambiamento di atteggiamento della popolazione Bosniaca, che è una delle più
ospitali al mondo, non è dovuto alla paura della pandemia, ma dal sentirsi in
qualche modo abbandonati dall’Europa per la seconda/terza volta nella gestione
di questo fenomeno. Noi, Europa che siamo un paese ricco e “potente”
esternalizziamo la gestione dei migranti al di fuori delle nostre frontiere e
li lasciamo in paesi già a terra economicamente per loro stessi, figuratevi
cosa vuol dire gestire un fenomeno come quello di avere tanti migranti, che poi
non sono tanti, ma teniamo conto che la Bosnia ha sulla carta 4 milioni di
abitanti cioè, la Lombardia ne ha dieci... .
Quindi
capite che anche 10 mila profughi, che è il numero che si stima solo in Bosnia, è
un numero piccolo ma le problematiche che ne derivano sono tante. La
popolazione impoverita a causa del Covid e ancora prima della guerra, chiaramente
non ha più retto questa grande presenza e anche l’aumento della criminalità:
nel campo di Bira c’erano in alcuni periodi 2.500 persone in una città di
qualche migliaio di abitanti molto poveri; alcuni migranti per cercare qualcosa
da mangiare o i soldi per andare avanti nel game andavano nelle case e rubavano… comprensibile, ma nella popolazione questo ha generato un sentimento di stanchezza,
frustrazione e negazione di questo fenomeno.
- Che tipologia di ferite e malattie avete riscontrato maggiormente? La causa delle ferite che curavate, era perlopiù dovuta alla violenza del game e della polizia o anche da scontri interni tra i migranti? Molti migranti parlano del fatto che la polizia croata dopo averli picchiati e pestati li rimandi indietro a piedi nudi in un inverno gelido e nevoso, come mai questo gesto di tortura disumano?
Elisa: I
due nuclei principali di problematiche mediche all’interno del campo erano perlopiù
ferite del viaggio e malattie legate all’igiene, poi ci sono tutte le
patologie sottostanti che le singole persone possono avere. L’igiene è molto
scarsa, quindi sono frequenti patologie come la scabbia, che è un parassita della
pelle; le ferite da percosse dovute alla violenza delle autorità al confine si
riconoscono molto bene (ematomi, il classico segno del manganello); ci sono
anche diverse immagini che sono state diffuse per testimoniare questo tipo di
violenza.
Un ragazzo ci aveva raccontato che da qualche tempo la
polizia non li picchiava più, ma toglieva loro solo le scarpe e gli zaini per poi
rimandarli indietro, è vero che una forma di violenza può essere il pestaggio e
le botte, ma in realtà questo gesto di
privazione comporta un altro tipo di ferite: rimandare indietro una persona
scalza per i boschi per chilometri, implica che se è estate torni con ferite da lacerazioni
(tagli, schegge) che poi si sovra infettano, se è inverno che torni con i piedi
congelati, in necrosi, in cancrena (pelle nera, tessuto morto) che poi deve
essere amputata.
La violenza diretta è un conto, ma togliere le scarpe
è una violenza quasi peggiore; quando una persona torna dal game è difficile
capire cosa è imputabile alle autorità del paese in cui cercano di dirigersi e
cosa del tragitto percorso, perché le due cose sono strettamente correlate.
Il problema in questi casi non è tanto la cura della
ferita, va ripulita se è grave e se c’è un rischio alto di infezione puoi anche somministrare un antibiotico; il problema è la cura che il paziente stesso riserva alla
ferita: bisogna cambiare la garza, pulirla, lavarla bene, disinfettarla, questa
è la cosa più difficile ed è anche la cosa che mi è rimasta più impressa. Spiegavo
alle persone come prendersi cura della ferita e dentro di me pensavo: "In questa
situazione surreale in cui non puoi nemmeno lavarti con l’acqua calda per farti
una doccia figuriamoci se questa persona ha come priorità quella di cambiarsi
la garza".
- Anche donne e bambini partecipano al game?
Elisa: donne e bambini li abbiamo incontrati in un altro campo: quello che abbiamo precedentemente citato era un campo per “single men”, uomini o ragazzi soli. Le famiglie sono in altri campi, noi li abbiamo visti al campo Borici, che era un’ex studentato, una struttura fatta in muratura, molto degradata. Passano sempre per il game, ma in questo casi i genitori con i bambini a carico devono impegnarsi di più, magari proverai meno volte, lascerai passare l’inverno… .
Claudia:
Non sono solo gli uomini che subiscono violenze, ma anche le famiglie intere, si
vedono di meno perché hanno paura di essere separati e quindi ci raccontavano
che spesso si nascondono, non vanno nei campi ufficiali ma vivono nei ripari,
nei boschi o nelle case abbandonate.
Nel campo Borici dove siamo state, appena arrivate mi
si è avvicinato un ragazzo con la moglie e un bambino, con in mano una busta
gialla: io all’inizio ero titubante. Mi chiese di aprirla, io curiosa la aprii e dentro
c’era un asciugacapelli, un phon. E in inglese mi chiese se potevo
comprarglielo perché il giorno prima erano tornati dal game e la polizia Croata
li aveva beccati e rimandati indietro e avevano bisogno di rifare un po’ di
soldi per tornare al game. Quindi sì, ci sono anche le famiglie.
- La condizione dei migranti in Bosnia è migliorata o peggiorato in modo significativo con qualche evento in particolare?
Elisa:
è
importante avere una visione globale di questa domanda: noi ora parliamo molto
di Bosnia ma in realtà la rotta balcanica coinvolge tanti altri paesi e c'è stata una serie di eventi da quando le persone hanno incominciato a passare per
questa rotta, che poi c’è sempre stata, che l'hanno modificata.
Il momento in cui si è iniziato a parlare di rotta balcanica era più o meno il 2015, per farvi capire allora la Bosnia non era coinvolta direttamente nella rotta, questa passava sopra quindi dalla Grecia, si andava in Macedonia e poi si passava per la Serbia e da lì le persone cercavano di arrivare o in Ungheria o in Croazia. Nel corso del tempo una serie di eventi ha cambiato le carte in tavola e peggiorato progressivamente la situazione. Questi cambiamenti sono dovuti dalle scelte di gestione del problema da parte dell’Europa.
A un certo punto l’Europa ha preso degli accordi con la Turchia per cercare di confinare il più possibile tutte queste persone e questo clima generale di intolleranza e chiusura è aumentato sempre di più ed ha portato a un gesto molto eclatante nel 2017: l’Ungheria ha alzato proprio un muro di filo spinato (il muro di Orban), questo gesto è sconvolgente ma è solo l’apice di una serie di scelte, che però tutta la comunità internazionale ha fatto. Questo muro ci fa capire come la Bosnia è solo un piccolo pezzettino del mosaico. Quindi secondo me la cosa importante da capire è che le scelte e gli avvenimenti bisogna sempre guardarli su larga scala, non solo chiedersi cos’ha peggiorato la situazione in Bosnia, ma guardare tutto quello che hanno fatto gli stati e quello che abbiamo fatto noi, come Italia ma soprattutto come Europa.
Claudia: Se
dobbiamo evidenziare uno spartiacque è appunto l’accordo Europa-Turchia nel marzo
del 2016, perché prima di quella data c’è stato un momento in cui la rotta
balcanica era legale: tu potevi passare da un paese all’altro con mezzi di
trasporto messi a disposizione dei vari stati e entrare in Europa e fare
domanda d’asilo, solo che in quell’anno sono arrivati in Germania un milione di
rifugiati e l’Europa spaventata si è chiusa sempre di più.
Di fronte a una difficoltà la rotta cambia, il sogno delle persone di andare verso una vita migliore non si ferma, quindi se la rotta balcanica ha aumentato i numeri perché attraversare il mare Mediterraneo dalla Libia era troppo pericoloso, adesso che la rotta balcanica sta diventando più pericolosa di quella mediterranea si stanno creando altre rotte. Questo ci insegna che se ci sono degli ostacoli si trova il modo per aggirarli in qualche modo.
-In una situazione di pandemia
globale come questa si tende a perdere un po' di vista la questione dei diritti
umani, sembrano astratti e lontani in confronto a quello che sta accadendo e
questioni del genere tendono a passare in secondo piano, soprattutto argomenti
come la rotta Balcanica che non sono mai stati trattati con dovuta attenzione.
Come possiamo impedire che ciò accada?
Elisa:
è vero che la situazione della pandemia ha destabilizzato tutti, ma anche
giustamente perché è un’emergenza globale ed è normale che sia così, ma anche
prima non è che si parlasse tanto di Rotta balcanica. Questa però domanda mi ha
fatto venire in mente proprio la differenza tra notizia e informazione: purtroppo
viviamo in un mondo in cui tutto passa attraverso ciò che fa notizia, ma questo
non è informazione, ad esempio i riflettori sulla rotta balcanica si sono
accesi quest’inverno a Lipa, con immagini forti come la gente nella neve, ma si
erano accesi anche nel 2015 con la foto di Alan Kurdi, il bambino con la
maglietta rossa ritrovato morto sulla spiaggia della Turchia.
Il
problema di queste notizie è che si possono usare per informare, ma poi la
notizia non esaurisce l’informazione ed è questo il problema: viviamo in un
mondo in cui spesso e volentieri c’è il momento del trend dell’argomento, la
gente legge perché si impressiona davanti a una fotografia, però poi i
riflettori si spengono. Adesso si parla molto meno della rotta, non c’è più la neve ma le persone continuano ad esserci, la situazione è ancora drammatica eppure
non se ne parla più.
Quindi la cosa che possiamo fare è mantenere alta l’attenzione, trasformare la notizia in informazione e non aver bisogno di qualcosa di gravissimo o che faccia scalpore per continuare a parlane, insomma, quello che state facendo voi, condividere e approfondire. Ma anche parlarne con la propria famiglia e i propri amici.
Claudia: Esatto, un’altra cosa che possiamo fare è coltivare una passione che abbia a che fare con un diritto umano, nel senso che non possiamo occuparci di tutto: da tanti anni la mia passione sono la Bosnia, i migranti e mi occupo di immigrazione anche per lavoro ed è chiaro che bisogna scegliere un ambito, una passione e su quella non abbassare mai la guardia, cercare di fare sempre la propria parte: può essere il clima, la difesa dei diritti delle donne, qualsiasi cosa vi possa appassionare!
SARA SANTORI
Grazie mille a tutti per la collaborazione e anche ai nostri lettori!
-SARA SANTORI E JACOPO MUSCATELLO-
Molto interessante e approfondito!!Bravi
RispondiEliminaMeraviglioso... sapere che i giovani di oggi sono preoccupanti delle vite, vittime,dei immigrati.
RispondiEliminaPotrebbero girare il pensiero dall'altra parte come i Grandi...
Andate avanti cosi.... Bravissima
Meraviglioso, ho avuto i brividi mentre leggevo l'articolo. È un argomento del quale non si parla molto, fate bene a sensibilizzare le persone. Bravi.
RispondiEliminaDavvero interessante!
RispondiEliminaComplimenti ragazzi! Articolo interessante, ben documentato e che fa riflettere
RispondiEliminaGrazie mille per questo meraviglioso e approfondito lavoro, leggerlo è stato un vero piacere. Complimenti per l'immenso impegno e per la chiarezza dell'intero articolo. Come ha detto Elisa, siete stat* molto coraggios* a trattare di un argomento che non si sente mai, neanche noi non lo conoscevamo. Continuate con il vostro splendido lavoro!
RispondiEliminaFrancisco e Azzurra.
molto interessante e fatto bene. Complimenti!
RispondiEliminaArgomento molto interessante!!!
RispondiEliminaGrazie Sara e Jacopo per averci aperto gli occhi sulla situazione di fronte a noi. Grazie per la vostra passione verso l'uomo. Grazie di cuore
RispondiElimina